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Innovazione, riforme e prospettive nel ddl sull’università
Antonello Masia, Capo dipartimento per l’Università, l’Afam e la Ricerca del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
 


Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri nella seduta del 28 ottobre 2009, il disegno di legge di riforma dell’università ha iniziato il suo cammino parlamentare (AS 1905). Il provvedimento delinea un impianto riformistico di ampio respiro, tale da incidere profondamente sulla vita delle università: dalla governance al sistema di finanziamento, dalla valutazione al reclutamento, passando per il diritto allo studio, la qualità dell’offerta formativa, l’internazionalizzazione, gli assegni di ricerca e i ricercatori a contratto. Si tratta del primo provvedimento organico in materia universitaria dopo la riforma avviata dalla legge n. 28/1980 e dal Dpr n. 382/1980 e dai provvedimenti del 1989 e dei primi anni Novanta riguardanti l’autonomia universitaria, promossi dal ministro Ruberti.
Il disegno di legge del ministro Gelmini stabilisce un principio fondamentale: l’autonomia delle università deve coniugarsi con una forte responsabilità finanziaria, scientifica e didattica. Per la prima volta il tema del reclutamento del personale docente è affrontato nel contesto di una riforma organica della governance e non in maniera isolata, come avvenuto nel 1979, nel 1998 e nel 20051. Per questa ragione il provvedimento riveste un’importanza fondamentale per il sistema universitario, chiamato ad affrontare una nuova stagione di cambiamenti. Guardando al passato, la sola occasione in cui è stata avviata una riforma di sistema così radicale si è registrata durante il mandato del ministro Ruberti, a partire dalla creazione (con la legge n. 168 del 1989) del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (Murst). In seguito, l’iter riformistico è stato scandito dall’attuazione dei Piani programmatici per gli anni 1986-1990 e 1991-1994, dalla riforma degli ordinamenti didattici (legge n. 341 del 1990) e dalla disciplina del sistema del diritto allo studio (legge n. 390 del 1991) e delle regole di programmazione del sistema (legge n. 245 del 1990). Questa sorta di leggi “quadrifoglio” doveva completarsi con la presentazione di un sistema di regole sull’autonomia, da approvarsi per legge ai sensi dell’art. 16 della predetta legge n. 168 del 19892.
La nuova disciplina dell’autonomia statutaria ha dato agli atenei la possibilità di individuare negli anni Novanta il proprio modello organizzativo e di definire i compiti e le attribuzioni degli organi di rappresentanza, determinando così tutti gli aspetti della vita universitaria3. Come detto, la legge quadro sull’autonomia non fu emanata, ma già all’epoca si è avvertita l’esigenza di dettare regole differenziate, tali da salvaguardare le spe- cifiche realtà che caratterizzano un sistema universitario comprendente oggi atenei di diversa tipologia: storici e di recente istituzione, statali e non statali, telematici e tradizionali, generalisti e specialistici.
Fino ad oggi i modelli di regolamentazione della governance hanno avuto il limite di uniformare le differenze, con conseguenze preoccupanti – come vedremo – sul versante di talune criticità4. In ogni caso il disegno riformistico di Ruberti è proseguito negli anni successivi con la disciplina dell’autonomia finanziaria, regolamentata dalla legge n. 537/1993 e consolidata con i modelli di finanziamento realizzati prima dall’Osservatorio e poi dal Cnvsu. Nel corso della XIII Legislatura è stato avviato anche il modello dell’autonomia didattica: in ossequio alla Dichiarazione di Bologna del 1999 si sono attuati interventi volti ad armonizzare l’architettura degli ordinamenti didattici sulla base di regole comuni europee. Il passo successivo della riforma della didattica, avviata sulla base delle
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